1. La 'paura triangolare'
Nel nostro presente, che si parli di cataclismi naturali, di epidemie globali o di guerre sempre in procinto di scoppiare, la paura si situa spesso in un futuro più o meno prossimo e, per questo motivo, tende a originare un vago timore indefinito, l'inquietante consapevolezza che, prima o poi, qualcosa di irreparabile sconvolgerà le nostre precarie esistenze. Come afferma giustamente Zygmunt Bauman, infatti, paura «è il nome che diamo alla nostra incertezza: alla nostra ignoranza della minaccia, o di ciò che c'è da fare – che possiamo o non possiamo fare – per arrestarne il cammino o, se questo non è in nostro potere, almeno per affrontarla».[1]
Se questa paura «diffusa, sparsa, indistinta, libera, disancorata, fluttuante»[2] rimanesse in un alone di indeterminatezza, essa potrebbe dare origine a due condotte di carattere opposto: da una parte, per esempio, assisteremmo, sconvolti e paralizzati dall'ineluttabilità della nostra scomparsa, a uno scenario dominato dall'angoscia esistenziale e contrassegnato dalla vanità di ogni gesto e di ogni azione; dall'altra, invece, la certezza dell'estinzione scatenerebbe le nostre pulsioni vitalistiche più nascoste, dando luogo ad un'anarchia millenaristica dove le norme sociali scompaiono e ognuno è libero di soddisfare i propri istinti. È inutile dire che entrambe queste situazioni determinerebbero la fine della società così come la intendiamo.
Proprio per questo motivo, quindi, così come per René Girard è necessario un «mediatore del desiderio»[3] affinché le nostre pulsioni vengano indirizzate verso un oggetto specifico, allo stesso modo si può ipotizzare come la paura, per trasformarsi da elemento disgregatore a fattore unificante della comunità, assuma, a sua volta, una forma 'triangolare', con gruppi etnici e sociali o soggetti considerati devianti che finiscono per incarnare, attualizzare e dare un volto concreto alle minacce che incombono su di noi.
Ma cosa si intende per 'Noi'? O meglio, cos'è necessario per fare sì che possano esistere un 'Noi' e un 'Loro'? Una delle possibili risposte che ci viene offerta dalla sociologia della devianza è quella secondo la quale, grazie allo 'Straniero', «attraverso l'individuazione di un elemento di diversità, il corpo sociale esce dall'anonimato e dall'indifferenziazione, e si percepisce come un soggetto collettivo dotato di un'identità specifica e sensata»:[4] benché il termine 'Straniero' sembri riferirsi esclusivamente a figure come quella del migrante, ovvero a colui che proviene da un imprecisato Altrove e che è in possesso di una cultura differente, esso, in realtà, assorbe dentro di sé anche coloro i quali, seppure all'interno della comunità, decidono di non aderire o di opporsi ai suoi valori.
Alla luce di queste considerazioni, quindi, quella tra 'Noi' e 'Loro' si configura come un'opposizione prettamente culturale e determina, come sostiene Michel Foucault, una «concezione binaria della società»:[5] all'interno di quest'ultima, da una parte si trova una classe sociale egemone, la quale, tramite l'assoggettamento dei saperi non conformi e la produzione di norme, crea i presupposti per la propria autoconservazione; dall'altra, invece, si situa un insieme di gruppi e di individui, i quali, seppure diversissimi tra loro, sono accomunati dal regime di esclusione ai quali sono sottoposti dal discorso dominante.[6]
I romanzi che verranno esaminati in seguito, pertanto, sono stati individuati cercando di rintracciare all'interno di essi la possibilità che la marginalizzazione sociale avvenga ad opera della cultura dominante secondo meccanismi simili e con modalità indipendenti dall'identità specifica del bersaglio che si intende criminalizzare. I processi di esclusione descritti all'interno di Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio di Amara Lakhous, I segni sulla pelle di Stefano Tassinari e Skinheads di John King costituiscono degli esempi di come rispettivamente le 'culture altre' dei migranti, le 'controculture' degli oppositori politici o le 'sottoculture' come quella skinhead, anziché rappresentare semplicemente degli stili di vita peculiari impiegati dai loro esponenti per relazionarsi con la realtà, vengono etichettate come devianti, fornendo in questo modo un capro espiatorio concreto per ammansire e incanalare, volta per volta, la nostra atavica paura dell'indefinito.[7]
Utilizzando il paradigma inaugurato da Norbert Elias e John Scotson, lo scenario che si prospetta è quello di una «figurazione radicati-esterni»:[8] essa, elaborata attraverso lo studio delle dinamiche conflittuali tra due gruppi di estrazione sociale simile, ma che si sono insediati in tempi differenti nella stessa comunità inglese, ha il vantaggio di evidenziare il nucleo originario di ogni disputa tra gruppi, ovvero la lotta che l'insieme di individui radicati conduce per la propria sopravvivenza e per il mantenimento della propria condizione privilegiata. Secondo i due sociologi, infatti, «il gruppo di radicati attribuiva ai propri membri caratteristiche umane superiori», dotandosi di un proprio codice di comportamento rispetto al quale era messa in atto «la minaccia del pettegolezzo di disapprovazione contro coloro che erano sospettati di infrangerlo».[9]
Se il pettegolezzo si rivela uno strumento efficace in un piccolo villaggio inglese degli anni Sessanta, è chiaro che, in un contesto storico più recente e in uno scenario geografico più ampio, la dimensione del fenomeno dovrà essere declinata in termini differenti. Per questo motivo, nei romanzi che verranno analizzati la funzione del «pettegolezzo di disapprovazione» verrà paragonata a quella delle rappresentazioni delle culture altre, delle controculture e delle sottoculture effettuate dai mezzi di comunicazione di massa. Sia il pettegolezzo sia le notizie trasmesse dai media, infatti, benché da un punto di vista quantitativo siano tra loro difficilmente equiparabili, in un'ottica qualitativa contribuiscono, rispettivamente nei piccoli centri e su scala nazionale, alla formazione del senso comune all'interno dell'opinione pubblica. Condividendo la posizione gramsciana che descrive il 'senso comune' come «grettamente misoneista e conservatore»,[10] nelle sezioni successive si cercherà di utilizzare la cornice teorica del pettegolezzo di disapprovazione definita da Elias e Scotson, applicandola al contesto più ampio della mediasfera.
Adottando come orizzonte interpretativo quello dei Cultural Studies, per i quali «capitalist industrial societies are societies divided unequally along ethnic, gender, generational and class lines […, and] culture is one of the principal sites where this division is established and contested»,[11] i tre romanzi oggetto di studio in questo articolo non si limitano, però, a smascherare e a esibire le strategie di esclusione messe in atto dalla cultura dominante attraverso i media, ma, dando voce alle soggettività marginalizzate, ampliano la gamma dei discorsi a nostra disposizione e, secondo meccanismi di carattere retorico che verranno illustrati in chiusura di saggio, si offrono come strumenti adeguati per rendere possibile, anche se in maniera parziale, la comprensione di quell'alterità che tanto spaventa e preoccupa.
2. La versione dei radicati: il clandestino, la zecca e il naziskin
Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio è un romanzo dall'autore algerino Amara Lakhous.[12] Questo testo, pubblicato nel 2003 in arabo e riscritto in italiano nel 2006, ha una struttura narrativa molto particolare: seguendo gli stilemi della detective story, infatti, la ricerca di Amedeo, scomparso in seguito al ritrovamento del cadavere di un uomo, viene raccontata sia attraverso il resoconto delle testimonianze degli inquilini del palazzo in cui abita il ragazzo sia tramite la trascrizione dei soliloqui e delle confessioni che Amedeo affida a un registratore magnetico nei momenti di depressione. La giustapposizione tra le parole degli inquilini, alcuni italiani e altri di diversa nazionalità, e quelle di Amedeo fa emergere in maniera molto originale i pregiudizi che da entrambe le parti finiscono per condizionare la convivenza pacifica tra gli abitanti del palazzo.
Benedetta Esposito, per esempio, è la portinaia dell'edificio ed è profondamente dispiaciuta per la scomparsa di Amedeo, allo stesso tempo uno dei pochi inquilini a rispettarla e a trattarla con cortesia e il principale sospettato, perché straniero, dell'assassinio dell'uomo trovato morto all'interno dell'ascensore. Leggendo alcune parole pronunciate dalla donna, tuttavia, sembrerebbe di avere a che fare con una razzista incallita; ella, infatti, afferma:
Io sono sicura che l'assassino di Lorenzo Manfredini è uno degli immigrati. Il governo deve reagire ampressa ampressa. Un altro poco ci cacceranno dal nostro paese. Basta che fai un giro di pomeriggio nei giardini di piazza Vittorio per vedere che la stragrande maggioranza della gente sono forestieri: chi viene dal Marocco, chi dalla Romania, dalla Cina, dall'India, dalla Polonia, dal Senegal, dall'Albania. Vivere con loro è impossibile. Tengono religioni, abitudini e tradizioni diverse dalle nostre.[13]
Difficilmente, però, Benedetta può avere visitato tutti gli stati che nomina e conoscerne «le religioni, abitudini e tradizioni diverse». Nel romanzo, infatti, la portinaia dimostra in più di un'occasione di confondere una nazionalità con l'altra. La donna, peraltro, non riesce nemmeno a capire che quello che lei reputa un inquilino modello, Amedeo, è, in realtà, un ragazzo algerino, Ahmed. Quella espressa da Benedetta, quindi, più che una preoccupazione dotata di un fondamento reale, è un'opinione che sembra rievocare i cliché e i toni allarmistici utilizzati da alcuni partiti politici xenofobi italiani. Non è un caso, infatti, che poche righe dopo ella aggiunga: «ogni settimana vediamo barche cariche di clandestini al telegiornale. Quelli portano malattie contagiose come la peste e la malaria! Questo lo ripete sempre Emilio Fede. Però nessuno lo sta a sentire».[14]
Quella che emerge a questo punto non è ovviamente una relazione deterministica tra la rappresentazione negativa del migrante effettuata dai media e la diffusione del razzismo. Ciò che questo brano evidenzia, invece, sono la forza di persuasione esercitata dai mezzi di comunicazione e la loro capacità di diffondere in maniera capillare uno stato di allerta ingiustificato. Allo stesso tempo, quello che si vuole mettere in rilievo è il rapporto di subordinazione dei media rispetto a quelli che sono stati definiti primary definers, ovvero coloro che, esercitando la loro funzione istituzionale di politico, di agente dell'ordine o, più in generale, di personalità di rilievo, hanno la prerogativa di circoscrivere l'ambito in cui un determinato fenomeno può essere discusso, delimitando, in questo modo, il ventaglio delle sue possibili interpretazioni e bloccando sul nascere qualsiasi forma di critica che, benché pertinente, possa rivelarsi controproducente per le finalità che i primary definers intendono perseguire.[15]
In altre parole, il riferimento continuo da parte dei media all'emergenza dei migranti, indipendentemente dal fatto che questa sia reale o meno, finisce per alimentare una «signification spiral», la quale «increases the perceived potential threat of an issue through the way it becomes signified».[16] Questa spirale si alimenta in un modo molto preciso: come nel caso studiato da Elias e Scotson, infatti, il «gruppo radicato tende ad attribuire al gruppo di esterni nel suo complesso quelle caratteristiche 'negative' che sono proprie della sua parte 'peggiore'»:[17] ciò implica che un crimine commesso da un migrante non verrà riportato esclusivamente come un caso di cronaca, ma, al contrario, tramite «la connotazione nazionale» del colpevole, unita, spesso, «alla sottolineatura dell'origine locale della […] vittima»,[18] si produrrà uno spostamento di senso in grado di distogliere l'attenzione dalla colpa del singolo e di riposizionare il dibattito sulla responsabilità collettiva del gruppo etnico di cui il migrante fa parte.
L'edificio multietnico descritto da Amara Lakhous, pertanto, è un chiaro esempio di come la percezione del pericolo debba essere mediata da uno strumento che amplifichi il senso di minaccia. Se osserviamo il rapporto tra gli inquilini del palazzo di piazza Vittorio, infatti, gli episodi conflittuali tra gli abitanti sono classificabili come delle banali schermaglie tra dirimpettai. La portinaia Benedetta Esposito, quindi, seppure non abbia grossi problemi con i migranti che le sono prossimi, parla con toni razzisti solo nel momento in cui viene condizionata, e impaurita, dai quei media che, in maniera ideologica, dipingono il fenomeno dell'immigrazione con delle tinte fosche che questo ovviamente non possiede. Di fronte alla proliferazione incontrollata di notizie che hanno come unico scopo quello di criminalizzare dei gruppi di individui provenienti da un'altra cultura, si può dire con Alessandro Dal Lago, quindi, che «l'esistenza di un canovaccio narrativo ricorrente rivela un meccanismo stabile di produzione mediale della paura».[19]
Come è stato anticipato nella sezione precedente, i migranti non sono gli unici soggetti ai quali, tramite il pettegolezzo, viene conferita un'immagine negativa e destinata ad alimentare la paura nel gruppo dei radicati. Stefano Tassinari, nel suo romanzo I segni sulla pelle, illustra alla perfezione come questo trattamento venga riservato anche a quegli attivisti politici che manifestano contro l'operato del governo. Nello specifico, il testo di Tassinari vede protagonista Caterina Ramat, una giornalista che, nel luglio del 2001, si reca a Genova come corrispondente per portare la propria testimonianza sulle manifestazioni organizzate contro lo svolgimento del G8.
Appena arrivata nel capoluogo ligure con un treno da Bologna, Caterina si trova di fronte una Genova che mostra tutti i sintomi della paura: Tassinari, infatti, scrive che «la città è quasi deserta, molti negozi sono chiusi, e il rumore più forte è quello prodotto dagli elicotteri sulle […] teste».[20] Quello che ci viene descritto dall'autore ferrarese sembrerebbe assomigliare, più che al percorso di un corteo, ad un campo di battaglia, dove di lì a poco si scatenerà la guerriglia urbana.
Ma per quale motivo la città di Genova è deserta? Anche in questo caso, come Lakhous, Tassinari ci mostra quali sono i meccanismi della produzione della paura; l'autore, infatti, scrive:
'Il terrorismo mediatico ha colpito ancora' osserva un ragazzo con un fascio di giornali sotto il braccio. 'Anche se nessuno s'è bevuto la storia del sangue infetto lanciato dal cielo, o quella dei missili della jihad puntati contro la Lanterna, dài e dài finisci con l'andare in paranoia. Ringraziamo la stampa e i telegiornali'.[21]
Benché gli allarmi lanciati dalle autorità riguardanti il «sangue infetto lanciato dal cielo» e i «missili della jihad» siano palesemente infondati, questi hanno sortito il loro effetto e la città di Genova, in maniera paradossale, viene trasfigurata nel suo simulacro spettrale e post-apocalittico dagli stessi proclami di coloro che volevano metterla in guardia dai presunti assedianti. In questo caso, oltre al dispositivo della signification spiral descritto in precedenza, la stampa e i telegiornali dispiegano un'ulteriore meccanismo per alimentare la paura dei lettori e dei telespettatori, quello della «convergence», ovvero «the linking of the specific issue to others by labelling, either explicitly or implicitly».[22] Questa strategia retorica, in altre parole, consiste nel descrivere una situazione specifica, in questo caso la protesta dei movimenti antagonisti nei confronti del G8, e nel metterla arbitrariamente in relazione con un'esperienza simile del passato. Il secondo termine di paragone, per fare sì che questa strategia abbia successo, deve essere costituito dal «sedimento di un'esperienza passata in cui si è dovuta affrontare una minaccia a bruciapelo»,[23] in modo tale che esso possa proiettare sul presente la paura che determinati eventi non si ripetano un'altra volta.
In questo caso l'esperienza del passato evocata dai media è chiaramente quella degli Anni di piombo: benché questa stessa denominazione possa essere accusata di individuare solo uno dei gruppi responsabili delle tensioni di quegli anni, i terroristi rossi,[24] l'immaginario dei genovesi deve essere ancora segnato dalla violenza delle manifestazioni politiche degli anni Settanta e, pertanto, continuamente sottoposto al paragone tra i manifestanti di oggi e quelli di ieri, non può rimanere insensibile alla preventivata riapparizione degli scontri a mano armata.
La strategia della paura, però, nonostante si dimostri efficace nel creare un clima generale di insicurezza, in questa occasione mostra i suoi limiti, soprattutto di fronte all'utilizzo del buon senso.[25] Tassinari, per esempio, descrive nel suo romanzo la reazione di un ristoratore al quale è stato suggerito di chiudere la propria trattoria per evitare danni:
Stamattina è venuto quel leugo del maresciallo, che non so cos'abbia nel belìno, a propormi di chiudere: per il suo bene, mi ha detto, perché quella che sta arrivando è gente che mangia, non paga e sfascia tutto. Grazie del consiglio, maresciallo, gli ho risposto, ma io tengo aperto lo stesso e do da mangiare a chiunque venga a chiedermelo: e poi a me quei ragazzi stanno anche simpatici, che li ho visti in televisione manifestare negli Stati Uniti e in varie parti d'Europa.[26]
Se poniamo fianco a fianco i migranti presenti nel romanzo di Lakhous e i manifestanti descritti da Tassinari, si può notare come, prima che i mezzi d'informazione lancino le loro campagne informative, i membri dei due gruppi non hanno commesso alcuna azione che possa suscitare il timore all'interno della comunità: quella che viene prodotta dai media, quindi, è un'accusa su ciò che migranti e manifestanti non hanno ancora fatto, ma potrebbero compiere in futuro in virtù della loro appartenenza a gruppi di non radicati. Questo procedimento mostra il concetto di devianza in tutta la sua artificiosità: come afferma Howard Becker, infatti, essa «non è una qualità dell'atto commesso da una persona, ma piuttosto una conseguenza dell'applicazione, da parte di altri, di norme e di sanzioni nei confronti di un 'colpevole'».[27]
Devianti non sono solo l'alterità del migrante o l'opposizione politica del manifestante, ma anche quegli individui che, per esprimere la propria insoddisfazione nei confronti della società in cui vivono, decidono di confrontarsi con essa non sul piano della politica, ma attraverso l'adozione di uno stile di vita alternativo, il quale, attraverso il meccanismo della differenziazione, «serve essenzialmente a proclamare al mondo una visibilità altrimenti negata».[28]
Tra le forme impolitiche di opposizione, quella descritta da John King nel suo romanzo è la sottocultura skinhead. La storia che l'autore inglese ci racconta è quella di Terry English, un cinquantenne che, ai giorni nostri, ripensa al suo passato da skinhead, osservando come alcuni ideali di quella esperienza resistano nel presente nelle figure del nipote e del figlio, declinati, però, in termini diversi a seguito delle modificazioni che sia lo stile di vita sia la società dove questo viene reinterpretato hanno subito nel corso degli anni.
King ci mostra come i media, anche con gli skinhead, abbiano dispiegato il dispositivo retorico della convergence descritto in precedenza, alimentando una confusione tale da trasformare il termine skinhead in un sinonimo di naziskin. Quando a Terry viene chiesto se ha visto un documentario dedicato agli skinhead, per esempio, questo risponde:
Terry had seen it advertised. Called Skinheads And Swastikas, it dealt with far-right groups in Eastern Europe, shave-headed youths in green flight-jackets, sieg-heiling for the cameras. He knew it would be the same old bollocks, the chance for the ponces in the media to boost their egos and pocket some easy cash. They didn't have a clue what being a skinhead was about, and didn't want to know either.[29]
La confusione, oltre che dai media, è alimentata dalla difficoltà con cui un individuo esterno alla sottocultura può figurarsi un'esperienza di vita che è in gran parte differente dalla propria. Come spiega Riccardo Pedrini, infatti, «la realtà sottesa a questa sottocultura è profondamente diversa, quasi incongrua alla percezione pubblica del fenomeno».[30] È chiaro, quindi, come l'ignoranza sia il terreno fertile per eccellenza sul quale possono attecchire le rappresentazioni ideologiche e terrorizzanti dei media.
Uno degli esempi più noti di questa strategia consiste nel descrivere lo skinhead come un individuo razzista, dedito al paki bashing, ovvero al pestaggio indiscriminato di migranti provenienti dal subcontinente indiano, il più delle volte individuati tra i proprietari di piccoli negozi al dettaglio. Benché alcuni episodi del genere si siano verificati, le origini della sottocultura skinhead rivelano la natura paradossale di questa accusa: come è stato scritto da Iain Chambers, infatti, «skinhead subculture represented a desperate assertion […]: the opposed symmetry of defiant black youth and a rigid image of a 'traditional' white working class that had in the meantime been extensively remade».[31] In altre parole, i giovani sottoproletari inglesi, sul finire degli anni Sessanta, trovarono nella condizione marginale degli immigrati giamaicani una situazione esistenziale comune alla loro e decisero, pertanto, affascinati dalla musica caraibica che questi ascoltavano, di imitare il loro stile di vita dal punto di vista estetico e musicale.
Quella messa in atto dai media attraverso la concentrazione dell'attenzione dell'opinione pubblica sui pochi episodi di razzismo, anziché sulla contestazione rivolta dagli skinhead alla crisi della classe operaia britannica, quindi, è una «fabulazione simbolica che deve servire allo scopo di rassicurare la gente».[32] A questo riguardo, tra l'altro, è da notare come diversi studiosi abbiano riconsiderato il fenomeno del paki bashing, sottraendolo alla categoria dell'assalto razziale e rintracciando la sua matrice nel paradigma della lotta di classe. Come sostiene Valerio Marchi, infatti, «a cementare l'alleanza tra giovani bianchi e giovani neri contro […] l'arrembante aggressività economica degli asiatici […] è l'esclusione permanente da una società del benessere disposta ad accogliere e premiare soltanto chi si adegua agli spietati canoni del mercato».[33]
Nonostante queste precisazioni, rintracciabili esclusivamente all'interno della letteratura specialistica dedicata alla sottocultura skinhead, la pervasività dei mezzi di comunicazione di massa si rivela maggiormente efficace nel condizionare l'immaginario non solo dei radicati, ma anche di un altro gruppo di esterni, quello dei migranti. Come scrive King nel suo romanzo, infatti, «for Asian people a skinhead means the National Front, racists who attack innocent people in the street, and Ray replies we've only come to see the bands, thinks about what he sees in the paper, the way skins are written about».[34]
A questo punto si può notare come la produzione mediale della paura non dia origine unicamente alla contrapposizione tra i radicati e gli esterni, ma instauri anche un'accesa conflittualità, che prima non esisteva, tra gruppi diversi di esterni, un clima di tensione che in passato ha finito per provocare gravi episodi di violenza. Nello specifico, il riferimento è agli scontri verificatisi nel 1981 a Southall, un sobborgo di Londra contraddistinto da un'elevata presenza di migranti. Questi scontri hanno visto contrapposti tra loro un gruppo di skinhead, che si era recato alla Hamborough Tavern per assistere a un concerto di musica Oi!, e alcuni membri della comunità asiatica.[35] Mentre alcuni studiosi hanno ricostruito l'accaduto attraverso il frame del razzismo, addossando, quindi, la responsabilità degli incidenti agli skinhead,[36] altri, invece, in maniera più accurata, hanno affermato che l'inizio dei tafferugli sia da imputare ai giovani asiatici, i quali, credendo che il concerto fosse, in realtà, un raduno di razzisti, decisero di attaccare per primi per evitare di trovarsi impreparati di fronte all'assalto dei presunti naziskin.[37]
Considerando quanto è stato scritto fino a questo momento, si nota come ogni volta che i media hanno paventato la minaccia impersonata dai migranti, dagli oppositori politici o dagli skinhead questa puntualmente si è verificata. Ciò, tuttavia, non è avvenuto in ragione della dote profetica posseduta dai mezzi di comunicazione, ma a causa delle strategie retoriche, signification spiral e convergence, e dei principi di selezione delle notizie che i media hanno impiegato per dipingere gli esterni come folk devils e suscitare il moral panic tra l'opinione pubblica costituita dai membri radicati della comunità.[38]
Qual è, quindi, la particolarità dei romanzi dei quali, fino a questo momento, è stata evidenziata la capacità di smascherare le strategie discorsive dei mezzi di comunicazione? Accanto al necessario compito di decostruire la vulgata costruita attorno alle culture diverse da quella dominante, questi testi si pongono la funzione altrettanto importante di portare la testimonianza vicaria di coloro che difficilmente hanno la possibilità di rappresentarsi in maniera autonoma. Nella sezione successiva di questo articolo, pertanto, si tenterà di rintracciare le strategie retoriche che sono state messe in campo dagli autori per fronteggiare la produzione della paura da parte dei media.
3. La versione degli esterni: il migrante, il contestatore e lo skinhead
Per evidenziare le modalità discorsive con cui Tassinari, Lakhous e King danno voce alle figure marginali descritte finora sarà utile richiamare alla memoria il concetto di 'orizzonte d'attesa' teorizzato da Hans Robert Jauss. L'azione preliminare svolta dallo studioso tedesco è quella di definire il termine 'orizzonte', evidenziando il suo «significato etimologico [… che] indica l'ambito visivo che delimita lo sguardo».[39] Ciò che viene sottolineata, in questo modo, è la parzialità della nostra esperienza conoscitiva, la scissione delimitata, appunto, dalla linea dell'orizzonte che separa ciò a cui possiamo accedere e ciò che, al contrario, ci rimane precluso.
In termini metaforici, quindi, il susseguirsi di esperienze simili instaura una routine consuetudinaria, determina la sclerotizzazione delle nostre prospettive esperienziali e, di conseguenza, origina un 'orizzonte d'attesa' sempre schiacciato sugli eventi del passato. Da questo punto di vista, se «per il lettore (o ascoltatore) il nuovo testo evoca l'orizzonte delle aspettative e delle regole reso familiare dai testi precedenti»[40] e se consideriamo come «testi precedenti» le news della stampa e dei giornali, è chiaro che l'opinione pubblica, il cui «ambito visivo che delimita lo sguardo» è stato ridefinito dai media, di fronte alle azioni degli individui marginalizzati, si attenderà con elevata probabilità qualcosa di negativo, un motivo per cui provare paura.
La dialogicità dei romanzi presi in esame, i quali contengono sia la voce dei radicati e le loro strategie di esclusione sia quella degli esterni, invece, «consente di rappresentare e rendere accessibile l'estraneità del discorso nel discorso stesso»:[41] ciò avviene grazie alla peculiarità del processo letterario «nel quale devono essere sempre mediati due orizzonti: l'orizzonte dell'attesa, che evoca, conferma o anche trasgredisce, e l'orizzonte dell'esperienza, che il destinatario guadagna nella sintesi attiva del comprendere e del ricomprendere diversamente».[42] La testimonianza subalterna trasmessa dal romanzo obbliga il lettore a fare i conti con la sua attesa tradita, ad interrogarsi sui motivi per cui la propria esperienza di determinati fenomeni appare nella narrazione così distante dalla propria. In questo modo, se il lettore accoglie l'istanza presente nel testo, egli è costretto a riposizionare il proprio orizzonte, ad ampliare il proprio campo visivo e, di conseguenza, a riconoscere la natura ideologica delle proprie convinzioni precedenti. Sempre citando Jauss, quindi, i tre romanzi presi in esame dimostrano «il modo in cui l'esser-altro può essere reso accessibile tramite il discorso poetico».[43]
Un'altra risorsa utilizzata dai tre autori è quella che è stata definita 'singolare frequente', ovvero quella figura di personaggio che, in virtù della sua soggettività unica ed irripetibile , ci appare famigliare, poiché inserito in una trama di relazioni sociali che conosciamo bene, ma con le quali non siamo mai entrati in contatto in maniera diretta. Questo procedimento da una parte fa sì che il personaggio non sia percepito solamente come una semplice invenzione finzionale, ma come un soggetto alle cui vicende ci si può appassionare, col quale si può litigare, essere d'accordo e verso cui, in ogni caso, si può provare un sentimento di empatia; dall'altra parte il 'singolare frequente', muovendo i suoi passi in un ambiente verosimile, fa sì che il romanzo possa mettere in scena «non solo ciò che è, ma anche ciò che potrebbe essere e quindi i mondi possibili che continuamente ci sfiorano e che, nonostante tutto, non vediamo se non attraverso l'immaginazione letteraria».[44]
Nel romanzo di Tassinari ciò che colpisce il lettore di fronte alle vicende di Caterina Ramat è proprio la possibilità di entrare in contatto con «i mondi possibili che continuamente ci sfiorano». Se l'orizzonte d'attesa indotto dai media tramite la convergence era quello dei terroristi rossi degli Anni di piombo, è la voce stessa di Caterina a smentire questa similitudine. Dopo il rientro da Genova e dopo essere venuta a conoscenza della morte di Carlo Giuliani, dei pestaggi avvenuti alla scuola Diaz e degli orrori della caserma di Bolzaneto, la giovane giornalista afferma:
So solo che Genova mi ha cambiato la vita e per poco non me l'ha tolta […]. È stata la violenza a cambiarmi? Da qualche parte ho letto che sarebbe 'la levatrice della Storia'. La definizione non mi piace, e certo non la farei mia, eppure mi affascina, nel senso che, per quanto un'idea del genere possa sembrare orribile, è sempre stato così, nel bene e nel male […]. Abbiamo riportato mole ferite […] e temo che molte altre ce ne verranno inferte se non inizieremo a difendere, anche con durezza, i pochi spazi che ci restano. Lo diceva Che Guevara, no? 'Dobbiamo essere duri, senza perdere la tenerezza', e visto che siamo e vogliamo essere diversi è proprio quella tenerezza a rappresentare il confine tra i nostri e i loro comportamenti.[45]
In questo brano si possono notare due fenomeni interessanti. In primo luogo, l'affermazione di Caterina «siamo e vogliamo essere diversi» neutralizza il dispositivo della convergence utilizzato dai media: benché le esperienze di lotta politica del passato possano costituire un riferimento culturale col quale confrontarsi, la giovane giornalista rivendica l'irriducibilità dell'esperienza genovese rispetto a qualsiasi evento precedente; di fronte a questa dichiarazione, pertanto, il lettore è invitato a riflettere sui tratti originali della protesta, sulle motivazioni che l'hanno provocata e, in ultima istanza, a riconoscere o meno la bontà delle ragioni dei manifestanti. In secondo luogo, si può assistere al rovesciamento del meccanismo proprio del pettegolezzo di disapprovazione: questo non viene più subito dal gruppo dei radicati, ma è utilizzato in prima persona dagli esterni per differenziarsi rispetto a delle pratiche che non sono condivise; «il confine tra i nostri e i loro comportamenti» segna una presa di distanza etica nei confronti della violenza impiegata dalle forze dell'ordine, non tace il paradosso per il quale chi metteva in guardia Genova dall'assedio si è rivelato, in seguito, il principale responsabile della devastazione della città e dei corpi che la attraversavano.
Un discorso analogo può essere fatto in merito al romanzo Skinheads di John King; l'autore inglese, infatti, rappresentando il mondo del sottoproletariato inglese dall'interno, ci offre uno spaccato di quella realtà che difficilmente potremmo incontrare sulla stampa o in televisione. Anche in questo caso la visione offerta da Terry English mette in discussione i pregiudizi del lettore e lo invita a riconsiderare la propria posizione nei confronti della sottocultura skinhead. Quando il protagonista del romanzo decide di aprire un pub, egli vorrebbe esporre l'Union Jack, la bandiera del Regno Unito; se, da una parte, questo atto può sembrare connotato in termini razzisti, presupponendo l'esclusione di coloro che non appartengono alla comunità di eletti, esso, in realtà, possiede esattamente il significato opposto. Terry, infatti, afferma: «the Union Jack would survive. If people understood that the red, white and blue was about having a drink and a laugh, about sticking together and not letting the outsiders divide you, it would fly in the alleyway outside come rain or shine».[46] Come nel brano de I segni sulla pelle citato poco fa, la logica degli «outsiders» viene rovesciata: il pub, che in precedenza era gestito da proprietari polacchi, era punto di ritrovo per individui di qualsiasi nazionalità ed esibiva già al suo esterno la bandiera britannica, rimane con Terry un luogo inclusivo, dove ognuno è libero di portare il proprio bagaglio di esperienze. Qui l'importante è «sticking together», ovvero, rispondere in maniera collettiva ai problemi della vita quotidiana con cui tutti devono fare i conti, indipendentemente dalla nazionalità, e fare fronte comune contro chi, tramite la strategia della paura, vuole creare suddivisioni laddove queste non esistono. Come ripetono spesso i personaggi del romanzo, infatti, «Oi and punk - i generi musicali attorno ai quali ruota la sottocultura skinhead - were supposed to bring proles together, not cause more divisions».[47]
Il romanzo di King ci offre un altro spunto interessante e lo fa attraverso le parole di Ray, il nipote di Terry English. Quando il ragazzo viene interrogato sulla sua appartenenza politica, questo è ciò che accade:
The bonehead – termine che indica uno skinhead razzista - spies Ray's look, asks him what's the matter, is he a Red or a Commie, and the younger man answers no, he's a patriotic socialist, fast, just like that […], knows this is going to upset the fat cunt, that people confuse nationalism and patriotism, don't expect to see patriotism connected with socialism.[48]
Ray, mettendo in relazione tra loro socialismo e patriottismo, ci introduce a una posizione politica inconsueta: se il nazionalismo attribuito dai media agli skinhead è di certo una prerogativa dei movimenti di stampo conservatore, definendosi patriota, Ray, come nel caso dello Union Jack descritto in precedenza, al contrario, dimostra l'inclusività della sottocultura di cui fa parte e delinea uno scenario inedito all'interno del quale è possibile professare gli ideali democratici e progressisti del socialismo e, allo stesso tempo, apprezzare i valori della propria cultura, senza, per questo, discriminare quella degli altri.
Come è stato evidenziato fino a questo momento, i romanzi qui analizzati ci permettono di entrare in contatto con esperienze di vita differenti dalla nostra, al fine di sostituire l'inquietante versione stereotipata degli esterni con un'immagine più prossima alla realtà. Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio di Amara Lakhous, infatti, ha la capacita di mettere il lettore di fronte al carattere drammatico che spesso si situa all'origine del fenomeno migratorio. Quando questo ci viene presentato dalla stampa o dalla televisione, per esempio, la morte di migliaia di migranti durante l'attraversamento del Mediterraneo viene sempre rappresentata facendo riferimento al numero dei decessi: se, da una parte, ciò ci permette di comprendere la natura sconvolgente della tragedia, dall'altra questa modalità descrittiva presenta due effetti collaterali molto pericolosi. In primo luogo, citando esclusivamente la cifra dei morti, i migranti sono presentati come una massa amorfa, la cui spersonalizzazione determina l'impossibilità di aderire empaticamente alle motivazioni strettamente personali che hanno spinto ciascuno di loro a rischiare la vita pur di arrivare in Europa. In secondo luogo, la ripetizione costante nel tempo di informazioni di questo tipo rischia di generare l'assuefazione dell'opinione pubblica e, pertanto, di ridurre l'impatto emotivo provocato dalla morte in mare di numerosi individui. Quest'ultimo effetto, definito 'diniego' da Stanley Cohen, si verifica nel momento in cui «alle persone, alle organizzazioni o ad intere società sono fornite informazioni troppo inquietanti, minacciose o anomale perché siano interamente assorbite o apertamente riconosciute».[49] Come ha dimostrato il sociologo di origini sudafricane, il diniego è uno strumento utilizzato dalla nostra psiche per porci al riparo da notizie troppo sconvolgenti. Esso, però, se considerato in rapporto alla paura indotta dai media nei confronti degli stranieri e alla natura drammatica sottesa al fenomeno della migrazione, costituisce un meccanismo insidioso, poiché spiana la via alla rimozione delle cause strutturali che spingono ogni giorno milioni di individui ad intraprendere, al costo della vita, un viaggio dall'esito incerto e, quindi, predispongono l'opinione pubblica a recepire, al contrario, delle spiegazioni del fenomeno non veritiere.
Se, come aggiunge Cohen, «per poter utilizzare il termine 'diniego' per descrivere l'affermazione di una persona 'non lo sapevo', bisogna presupporre che sapesse o che sappia ciò che pretende di non sapere»,[50] Lakhous, dopo aver reso simpatico il personaggio di Amedeo/Ahmed al lettore e dopo avere fatto affezionare quest'ultimo alle sue vicende, fa riaffiorare nel testo ciò che il diniego aveva reso opaco narrando i motivi che hanno spinto il ragazzo algerino a trasferirsi in Italia. L'autore, infatti, scrive:
La disgrazia di Ahmed è iniziata quando è morta la sua fidanzata Bàgia, la figlia dei vicini. Un giorno Bàgia era andata a trovare sua sorella a Boufarik, non lontano da Algeri, e mentre tornava in pullman i terroristi hanno organizzato un finto posto di blocco facendosi passare per poliziotti e hanno sgozzato tutti i viaggiatori tranne le ragazze. Bàgia ha provato a fuggire dai criminali e a salvarsi dallo stupro, così le hanno sparato una raffica di mitra. Ahmed non ha saputo accettare quella tragedia.[51]
Questo brano, in tutta la sua crudezza, restituisce ad Ahmed un passato individuale unico, facendolo uscire dall'indifferenziazione che contraddistingue la rappresentazione mediatica dei migranti. Lakhous, in questo modo, obbliga il lettore a fare i conti con il proprio diniego, lo costringe a fare riaffiorare il rimosso e, in teoria, lo convince della natura infondata dei timori che, prima, aveva provato nei confronti dello Straniero.
Per concludere, ciò che si è voluto mettere in risalto in questo studio è la potenzialità della parola letteraria di dischiudere al nostro immaginario, colonizzato dalle rappresentazioni mediali della paura, universi inaccessibili alla nostra sfera esperienziale. Comprendere un fenomeno estraneo nei termini di un altro grazie al testo poetico e al suo utilizzo della metafora non significa di certo impossessarsi interamente dell'esperienza altrui, ma è sicuramente «uno dei nostri strumenti più importanti per cercare di comprendere parzialmente quello che non può venire compreso totalmente».[52] L'arma segreta della metafora poetica, per certi versi, è quella di contendere alla paura lo stesso terreno che «unisce ragione ed immaginazione»:[53] la letteratura, infatti, può mettere in campo un arsenale retorico in grado di sostituire il lessico della paura con quello dell'empatia e della curiosità nei confronti dell'Altro.
Come affermano Mark Johnson e George Lakoff, anche se «è piuttosto ragionevole assumere che le parole, da sole, non cambiano la realtà», allo stesso tempo, si può ragionevolmente sostenere che «i cambiamenti nel nostro sistema concettuale cambiano ciò che è reale per noi e influiscono sul modo in cui percepiamo il mondo e agiamo in base a queste percezioni»:[54] i romanzi di Amara Lakhous, Stefano Tassinari e John King, mettendo a nudo i procedimenti discorsivi propri della figurazione radicati-esterni, ci mostrano la possibilità che abbiamo di abbandonare questa strategia di esclusione, utile soltanto ad originare un senso di timore indifferenziato. Adottando come orizzonte esperienziale quello del dialogismo, del confronto e della comprensione, invece, questi testi ci fanno intravedere un mondo meno minaccioso, un futuro meno incerto, un'ipotesi di comunità che viene nella quale il bacillo della paura è stato debellato e i suoi untori ridotti al silenzio.
(Università di Bologna)
Z. Bauman, Paura liquida, trad. it. di M. Cupellaro, Roma – Bari, Laterza, 2009, p. 4.
Ivi.
R. Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca. Le mediazioni del desiderio nella letteratura e nella vita, trad. it. di L. Verdi-Vighetti, Milano, Bompiani, 2002, p. 7.
V. Scalia, Migranti, devianti e cittadini. Uno studio sui processi di esclusione, Milano, FrancoAngeli, 2005, p. 19.
M. Foucault, Bisogna difendere la società, a cura di M. Bertani, A. Fontana, Milano, Feltrinelli, 2009, p. 49.
Secondo i ricercatori del Centre for Contemporary Cultural Studies (CCCS) della University of Birmingham «the dominant culture represents itself as the culture. It tries to define and contain all other cultures within its inclusive range. Its views of the world, unless challenged, will stand as the most natural, all-embracing, universal culture. Other cultural configurations will not only be subordinate to this dominant order: they will enter into struggle with it, seek to modify, negotiate, resist or even overthrow its reign – its hegemony». J. Clarke et al., Subcultures, Cultures and Class, in S. Hall, T. Jefferson (eds.), Resistance through Rituals. Youth Subcultures in Post-War Britain, London – New York, Routledge, 1998, pp. 9-80: 12.
I romanzi che verranno analizzati sono: J. King, Skinheads, London, Vintage, 2009; A. Lakhous, Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio, Roma, e/o, 2006; S. Tassinari, I segni sulla pelle, Milano, Tropea, 2003.
N. Elias, J.L. Scotson, Strategie dell'esclusione, trad. it. di A. Perulli, E. Cioni, Bologna, Il Mulino, 2004, p. 17.
Ivi.
A. Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica dell'Istituto Gramsci, a cura di V. Gerretana, II, Torino, Einaudi, 1975, p. 1400.
J. Storey, Cultural Studies: An Introduction, in What is Cultural Studies? A Reader, London, Arnold, 1996, pp. 1-13: 3.
A differenza di Skinheads e I segni sulla pelle, Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio di Amara Lakhous è un romanzo che è stato oggetto di numerosi studi, assumendo il ruolo di testo canonico perlomeno nell'ambito della letteratura della migrazione scritta in italiano. Si consideri, per esempio, F. Pezzarossa, Una casa tutta per sé. Generazioni migranti e spazi abitativi, in Certi confini. Sulla letteratura italiana dell'immigrazione, a cura di L. Quaquarelli, Milano, Morellini, 2010, pp. 59-117. Nel presente saggio, tuttavia, limitando l'utilizzo della bibliografia secondaria, si è deciso di accogliere l'invito di diversi critici a considerare quella scritta dai migranti una letteratura tout court, senza una specificazione di provenienza geografica, la quale, se da un lato ha contribuito senza dubbio all'emersione della letteratura postcoloniale italiana, dall'altra rischia di relegare lo studio dei testi prodotti dagli scrittori migranti in un ambito esclusivamente sociologico-antropologico. Gli articoli a cui faccio riferimento sono: U. Fracassa, Strategie di affrancamento: scrivere oltre la migrazione, in Ivi, pp. 179-199 e G. Benvenuti, Letteratura della migrazione, letteratura postcoloniale, letteratura italiana. Problemi di definizione, in Leggere il mondo: vent'anni di scritture della migrazione in Italia, a cura di F. Pezzarossa e I. Rossini, Bologna, Clueb, 2011, pp. 247-260.
A. Lakhous, Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio, cit., p. 50.
Ivi, p. 51.
Un'analisi approfondita della relazione tra media ed egemonia politica è stata sviluppata nei lavori del CCCS. Gli autori, infatti, scrivono: «the primary definition sets the limit for all subsequent discussion by framing what the problem is. This initial framework then provides the criteria by which all subsequent contributions are labelled as 'relevant' to the debate […]. The media […] do not simply 'create' the news; nor do they simply transmit the ideology of the 'ruling class' in a conspiratorial fashion […]. The media are frequently not the 'primary definers' of news events at all; but their structured relationship to power has the effect of making them play a crucial but secondary role in reproducing the definition of those who have privileged access, as of right, to news production as 'accredited sources'». S. Hall et al., Policing the Crisis. Mugging, the State, and Law and Order, London, Macmillan, 1978, p. 59.
J. Clarke et al., Subcultures, Cultures and Class , cit., p. 77.
N. Elias, J.L. Scotson, Strategie dell'esclusione, cit., p. 20.
V. Scalia, Migranti, devianti e cittadini, p. 136.
A. Dal Lago, Non-persone. L'esclusione dei migranti in una società globale, Milano, Feltrinelli, 2004, p. 73.
S. Tassinari, I segni sulla pelle, cit., p. 14.
Ivi.
J. Clarke et al., Subcultures, Cultures and Class , cit., p. 70.
Z. Bauman, Paura liquida, cit., p. 5.
Cfr. A. O'Leary, Tragedia all'italiana. Cinema e terrorismo tra Moro e memoria, Tissi, Angelica, 2007, pp. 49-53. Lo studioso osserva come una denominazione del genere non faccia riferimento allo stragismo dinamitardo di destra e alle violenze, spesso arbitrarie, perpetrate dalle forze dell'ordine.
L'espressione 'buon senso' non è stata utilizzata a caso. Se nella prima sezione di questo articolo si è fatto riferimento alla concezione gramsciana riguardante il 'senso comune', è lo stesso filosofo italiano, citando Manzoni, a presentare in termini antagonistici il «grettamente misoneista e conservatore» 'senso comune' (Cfr. infra, Nota n. 10)' e l'utilizzo del 'buon senso'. Gramsci, infatti, scrive: «Il Manzoni fa distinzione tra senso comune e buon senso (cfr Promessi Sposi, cap. xxxii sulla peste e sugli untori). Parlando del fatto che c'era pur qualcuno che non credeva agli untori, ma non poteva sostenere la sua opinione contro l'opinione volgare diffusa, scrive: “Si vede che era uno sfogo segreto della verità, una confidenza domestica; il buon senso c'era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune». A. Gramsci, Quaderni del carcere, cit., p. 1483.
S. Tassinari, I segni sulla pelle, cit., pp. 33-34.
H. S. Becker, Outsiders. Saggi di sociologia della devianza, Torino, EGA, 1987, p. 28.
R. Pedrini, Skinhead. Lo stile della strada, Roma, Castelvecchi, 1996, p. 47.
J. King, Skinheads, cit., p. 8.
R. Pedrini, Skinhead, cit., p. 37.
I. Chambers, Urban Rhythms. Pop Music and Popular Culture, London, Macmillan, 1985, p. 164.
R. Pedrini, Skinhead, cit., p. 37.
V. Marchi, La sindrome di Andy Capp. Cultura di strada e conflitto giovanile, Rimini, NdA Press, 2004, p. 84.
J. King, Skinheads, cit., pp. 132-133.
John King offre la sua ricostruzione dell'avvenimento nel capitolo del romanzo intitolato 'Running Riot in '81'. Cfr. Ivi, pp. 129-134.
Cfr. D. Hebdige, Subculture. The Meaning of Style, London – New York, Routledge, 1988, pp. 58.
Lo studioso di sottoculture Valerio Marchi, per esempio, scrive: «in un clima di allarme per le aggressioni e le provocazioni dei fascisti […] si sparge la voce che nella zona si terrà un concerto di gruppi skinhead, che la stampa già dipinge da qualche anno come geneticamente razzisti […]. Ambienti del Socialist Worker's Party, partito che ha sempre guardato all'Oi! con sospetto, contribuiscono ad aumentare il clima d'allarme. Memori delle violenze fasciste del '79 le strutture di difesa si organizzano, quindi, attaccando il 'nemico' per non doverne subire l'iniziativa». V. Marchi, Teppa. Storia del conflitto giovanile dal Rinascimento ai giorni nostri, Roma, Castelvecchi, 1998, pp. 121.
Cfr. S. Cohen, Folk Devils and Moral Panics. The Creation of the Mods and Rockers, Oxford, Blackwell, 1987.
H.R. Jauss, Estetica e interpretazione letteraria. Il testo poetico nel mutamento d'orizzonte della comprensione, trad. it. di C. Gentili, Genova, Marietti, 1990, p. 6.
H.R. Jauss, Storia della letteratura come provocazione, trad. it. di P. Cresto-Dina, Torino, Bollati Boringhieri, 1999, p. 195.
H.R. Jauss, Estetica e interpretazione letteraria, cit., p. 28.
Ivi, p. 40.
Ivi, p. 25.
G. Turnaturi, Immaginazione sociologica e immaginazione letteraria, Roma – Bari, Laterza, 2003, p. 19.
S. Tassinari, I segni sulla pelle, cit., pp. 153-154.
J. King, Skinheads, cit., p. 275.
Ivi, p. 201.
Ivi, p. 170-171.
S. Cohen, Stati di negazione. La rimozione del dolore nella società contemporanea, trad. it. di D. Damiani, Roma, Carocci, 2002, p. 23.
Ivi, p. 28.
A. Lakhous, Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio, cit., p. 162.
M. Johnson, G. Lakoff, Metafora e vita quotidiana, trad. it. di P. Violi, Roma, L'espresso, 1982, p. 215.
Ivi, p. 214.
Ivi, p. 167.